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La letteratura che ci tiene umani

Con il Nobel a László Krasznahorkai, l’Accademia svedese riafferma il valore universale della parola.

Eppure, l’arte. Sì, proprio questo sembra aver voluto dire con forza l’Accademia svedese nell’assegnare il 9 ottobre il Nobel per la letteratura 2025 allo scrittore ungherese László Krasznahorkai: il potere dell’arte, e il suo confermarlo oggi, sono tra gli strumenti universali più efficaci a nostra disposizione per affermare, sostenere, confermare l’uomo, che certo può smarrirsi nel terrore apocalittico (sono parole della giuria) che caratterizzano questa epoca.

Si tratta in un certo senso di un ritorno. Le priorità dell’Accademia svedese, che hanno sempre offerto e costituito una bussola per l’orientamento di chi cerca significato nell’arte e in modo specifico nella parola scritta (anche in forma di canzone, come ha dimostrato il Nobel assegnato a Bob Dylan nel 2016), sono molto cambiate nel tempo, con gli orizzonti e i contesti ai quali guardare e dai quali si ricevono contributi considerati di valore universale: la geopolitica di questo Nobel si è modificata includendo letterature una volta considerate di “periferia”. Fenomeno che d’altra parte ha interessato tutta la produzione culturale: il mondo contemporaneo globalizzato ha espresso la necessità, e a tratti anche l’urgenza, di raggiungere, ascoltare, capire, approfondire e perché no? imparare ad amare voci, lingue, stili, realtà e interpretazioni tradizionalmente estranee ai modelli espressi dal Primo mondo. E ciò anche per il genere: se la prima donna a vincere il premio è stata la svedese Selma Lagerlöf nel 1909, quindi a pochi anni dalla sua istituzione nel 1901, in oltre 120 anni le vincitrici sono state solo 19, compresa Han Kang nel 2024, evento doppiamente particolare anche perché si è trattato del primo riconoscimento consegnato dall’Accademia svedese a una voce coreana. Anche sotto questo profilo le scelte dell’Accademia si sono orientate con sempre maggior equilibrio e negli ultimi dieci anni tra premiati e premiate si è “raggiunta la parità”: prima di Han Kang e dal 2015, hanno vinto il Nobel altre quattro donne: Annie Ernaux (Francia) nel 2022, Louise Glück (Stati Uniti) nel 2020, Olga Tokarczuk (Polonia) nel 2018 e Svetlana Aleksievic (Bielorussia) nel 2015. Diciamo che i generi si sono alternati: così, dopo Hang Kang, il premio è tornato a un uomo, Krasznahorkai, appunto. 

Il cambio di prospettiva e del “sentire” dell’Accademia si è percepito poi nell’evoluzione delle motivazioni indicate dalla giuria nell’assegnare il Nobel. Così, nei primi decenni del Novecento prevalgono l’originalità artistica, la ricerca della verità, l’idealismo. Negli anni Sessanta vengono sottolineati il pensiero libero, l’analisi della coscienza. Successivamente l’attenzione va alla denuncia politica e alla sperimentazione. all’invenzione stilistica e alle esperienze umane. Dagli anni Ottanta e Novanta, e ancor più nell’ultimo decennio, con il maggior cosmopolitismo della letteratura, si affermano tra le motivazioni l’identità, la memoria, le radici storiche e culturali, la sofferenza per gli effetti del colonialismo, delle migrazioni, dell’esilio. E, come nel caso di Han Kang, la narrazione, con le specificità culturali e i traumi storici, della fragilità della vita umana. La nostra fragilità, in senso universale.

Già, in senso universale. Ed ecco il ritorno, perché la domanda di fondo è forse cambiata: non è più relativa a ciò che la letteratura percepisce, include, capisce, interpreta, sottolinea. Non riguarda più, o sembra riguardare meno (ora) gli ambienti, le circostanze, le radici, le identità che trovano significato nell’arte. No, la domanda di fondo riguarda l’arte in sé. E questo vale per tutte le forme di espressione caratterizzate dalla totale libertà che solo l’arte permette. Limitando il campo alla letteratura, possiamo dire che oggi ha ancora quel ruolo centrale di narrazione universale che ha conquistato soprattutto con l’imporsi del romanzo? La domanda appare legittima di fronte alla cifra dell’Apocalisse alla quale sembriamo particolarmente sottoposti non solo in senso ontologico, ma anche considerando ciò che ci disturba e perturba tra tecnologie, guerre e cambiamenti climatici. È ancora centrale la letteratura di fronte, o meglio nonostante, il prevalere di strumenti e formati diversi di comunicazione, racconto e riflessione che sembrano in grado di sostituire il “dispositivo” tradizionale, il libro, e le forme classiche, prosa e poesia? Le storie infinite sui social ci descrivono meglio, in modo più efficace e più “vero”?

L’Accademia risponde con il premio al visionario scrittore ungherese: l’arte è e resta al centro purché si abbia il coraggio di affermarla come tale. E il coraggio si misura con la capacità di esprimere l’universale, anche, e forse oggi soprattutto, seguendo vie inconsuete, che rasentino il sublime o che esprimano il solitario perdersi nel nulla, nel cercare strade che magari non ci sono nemmeno. In una recente intervista a Rivista Studio Krasznahorkai dice: «Si scrive sempre di: oh-oh, a adesso dove sono, dove sono capitato, mi sono perso, da che parte devo andare, dove devo andare?». E definisce un suo libro (Seiobo è discesa quaggiù, edito in Italia da Bompiani) «una quercia, un insieme. Non è un romanzo. Bensì, molto semplicemente, un insieme».

Ecco, abbandoniamoci a questa definizione: in un mondo che semplifica fino allo stordimento, la letteratura è un insieme, con un’architettura complessa e una struttura semplice, come quella di una quercia. Piena di visioni, non necessariamente di risposte. Che si interroga. E che è anche in grado, come Krasznahorkai, di affermare che non esiste opposizione all’arte da parte del mondo virtuale di oggi, Perché, e questo solo l’artista nella sua piena, legittima, inviolabile libertà, può dirlo: «Anch’io lavoro con un mondo virtuale, perché del mondo non abbiamo mai saputo nulla, il “mondo” è sempre stato virtuale. E lo sarà sempre. Non sapremo mai nulla del “mondo” se non il niente, Perché il mondo non esiste».

Già, e l’arte esiste anche in quanto vertigine. Una vertigine che, in sé, può farci sentire più umani nello smarrito affrontare i quotidiani terrori apocalittici.

 

Categoria: Cultura
Titolo: La letteratura che ci tiene umani
Autore: Sergio Bocconi, giornalista