La nuova politica industriale
Con Trump lo Stato entra nelle imprese strategiche: tra investimenti record e rischi di clientelismo, l’America riscopre il capitalismo di Stato.
La politica industriale è tornata al centro della scena americana, e questa volta porta la firma di Donald Trump. Nel suo secondo mandato, il presidente ha trasformato Washington in azionista, creditore e arbitro diretto delle imprese strategiche. Non è più solo questione di dazi o di incentivi fiscali: ora lo Stato entra nei consigli di amministrazione e pretende una parte dei ricavi.
L’operazione più eclatante è quella su Intel. A metà agosto la Casa Bianca ha convertito oltre 11 miliardi di dollari di aiuti in una quota del 10% della società. Trump ha parlato di “vittoria per i contribuenti”, perché lo Stato, finalmente, ottiene un ritorno da ciò che finanzia. Lo stesso schema è stato applicato ai giganti dei semiconduttori Nvidia e AMD, autorizzati a vendere chip depotenziati alla Cina a condizione di cedere il 15% degli introiti al Tesoro americano. Nel settore siderurgico, l’acquisizione di U.S. Steel da parte di Nippon Steel è stata approvata solo dopo che Washington ha ottenuto una “golden share” con diritto di veto. Persino Coca-Cola è stata spinta a sostituire lo sciroppo di mais con zucchero di canna, in nome del sostegno agli agricoltori americani. Una dimostrazione di quanto ampio sia ormai il perimetro dell’intervento statale.
Per chi conosce la storia economica italiana, nulla di tutto questo è davvero nuovo. Negli anni del boom, lo Stato imprenditore attraverso l’IRI guidava settori strategici, dalle acciaierie alla chimica. ENI e ENEL sono nate da quella stagione di interventismo pubblico. Oggi l’Europa discute di “sovranità industriale” per ridurre la dipendenza dalla Cina da batterie, microchip e terre rare. La Commissione ha varato un “Chips Act” europeo e programmi per rafforzare la filiera delle rinnovabili. La Germania mantiene ancora oggi una quota di controllo in Volkswagen, mentre la Francia non ha mai rinunciato all’idea di “campioni nazionali”.
Anche negli Stati Uniti dove la nuova ondata di politica industriale può sembrare senza precedenti, lo Stato ha da sempre influenzato i mercati: dai dazi e sussidi di Hamilton del 1791 al sostegno federale alle ferrovie, dalla mobilitazione bellica alle agenzie della Guerra Fredda. dal consorzio voluto da Reagan per i semiconduttori ai prestiti verdi dell’era Obama, fino ai salvataggi di GM e AIG nel 2008–09.
Trump, dunque, non è un’anomalia isolata, ma un sintomo di un cambiamento globale. La pandemia e la competizione con Pechino hanno mostrato quanto sia rischioso affidarsi a catene del valore troppo lunghe. Gli Stati Uniti, come l’Europa, stanno riportando a casa produzioni considerate vitali per la sicurezza nazionale. E i numeri danno la misura: solo nel settore dei semiconduttori, i nuovi programmi federali hanno già mobilitato investimenti privati per oltre 450 miliardi di dollari e, secondo le stime, entro il 2032 gli Stati Uniti potrebbero arrivare a produrre quasi un terzo dei chip più avanzati al mondo. Per Trump, inoltre, l’argomento è politicamente vincente: promettere fabbriche e posti di lavoro in Stati decisivi come l’Ohio o l’Arizona significa consolidare consenso.
Tuttavia, c’è una differenza cruciale. In Europa, pur con tutti i limiti, la politica industriale tende a essere incardinata in regole, programmi pluriennali e mediazione comunitaria. In America, con Trump, prevale l’improvvisazione personale. Non si tratta di una strategia industriale strutturata, ma di accordi negoziati direttamente dallo Studio Ovale, spesso con toni da “investitore attivista”. Il rischio è evidente: un capitalismo di Stato senza istituzioni forti può facilmente scivolare nel clientelismo.
Gli economisti mettono in guardia: Trump rischia di “scegliere i perdenti”, legando risorse pubbliche a imprese in declino, più per calcolo politico che per visione di lungo periodo. Ed è lo stesso pericolo che l’Italia e l’Europa hanno conosciuto con certe esperienze del passato: aziende mantenute artificialmente in vita a spese dei contribuenti, senza mai diventare competitive.
D’altra parte, non mancano i benefici. Le catene di approvvigionamento diventano più resilienti, i posti di lavoro nelle aree industriali si moltiplicano e la politica industriale torna a essere uno strumento di consenso. E qui sta la lezione anche per l’Europa. Non basta evocare la concorrenza e il mercato unico: in un mondo dominato dalla Cina e dagli Stati Uniti, l’Unione non può permettersi di restare l’unica potenza economica ad affidarsi soltanto alle regole del mercato.
Trump ha riportato la politica industriale al centro della scena, ma lo ha fatto con uno stile che ricorda più l’investitore attivista che lo statista di lungo periodo. I benefici – filiere più resilienti, investimenti miliardari, ritorni politici immediati – sono reali. Ma lo sono anche i rischi: inefficienza, clientelismo e fragilità giuridica.
L’America ha varcato di nuovo il Rubicone. Resta da capire se questa nuova stagione di capitalismo di Stato diventerà un modello duraturo di rilancio industriale o l’ennesima lezione di quanto possa costare un eccesso di intervento politico nell’economia.
Categoria: Scenario
Titolo: La nuova politica industriale
Autore: Dante Roscini, professore
