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L’Africa nel fine dining

Dai ristoranti stellati di Parigi a New York, la cucina africana si afferma con sapori autentici, tradizione e sostenibilità.

Proprio come il mondo dell’abbigliamento che, nel susseguirsi delle mode, necessita di una continua innovazione di tessuti, colori, forme, così capita nel mondo della ristorazione. Un tempo i trend si susseguivano con decennale lentezza. La cucina francese è stata al centro dell’immaginario gastronomico per più di un secolo. Poi, attorno al 1970, è arrivata sempre dalla Francia la Nouvelle cuisine, con le sue declinazioni anche italiane, per esempio l’interpretazione di Gualtiero Marchesi.

Negli anni Ottanta inizia ad affermarsi la cucina giapponese, seguita dalla cucina panasiatica (franco-giapponese, nippo-brasiliana, thailandese). Al contempo, nel mondo comincia a diffondersi la moda della nuova cucina italiana, nelle sue varianti regionali. Con l'arrivo degli anni Duemila, è il turno della rivoluzione spagnola e della cucina molecolare di Ferran Adrià e dei cuochi baschi. Dopo cinque anni esplode il boom della cucina New Nordic, con René Redzepi e il suo Noma, e la filosofia culinaria del foraging: tutti nei boschi a raccogliere funghi, licheni e radici. Nel 2015 si afferma la moda dell’alta cucina peruviana e messicana, con chef come Gastón Acurio e altri esponenti brasiliani, messicani e cileni.

Nel frattempo, preme il Medio Oriente: Yotam Ottolenghi da Israele sbarca a Londra, dove apre ristoranti di gran moda e pubblica libri di ricette che diventano best seller mondiali. Siamo negli anni Venti del Duemila: è il momento dell’Africa. Non solo nell’arte contemporanea, con artisti come El Anatsui, William Kentridge, Njideka Akunyili Crosby, Julie Mehretu, e curatori come Koyo Kouoh, ma anche nella gastronomia del fine dining. Al MoSuke, Rive Gauche di Parigi, si prenota con mesi d'anticipo: 9 portate, 195 euro. Una delle specialità più ambite è una salsa nera come il carbone, estratta dall'Afrostyrax lepidophyllus, un albero delle foreste pluviali del Camerun. Il popolo Bassa ne taglia la corteccia, la brucia e la pressa fino a renderla fine come polvere da sparo. Al Chishuru di Fitzrovia, Londra, si assaggia l'eko, una torta nigeriana di mais fermentato immersa in una zuppa di peperoni. Si bevono cocktail con baccelli di okra e un mix di vodka e ogogoro, un liquore affumicato vietato dalle autorità britanniche all'inizio del Novecento per incentivare il consumo di gin importato. Al Lincoln Center di Manhattan, da Tatiana, spopola un piatto da 86 dollari, con pastrami ecostolette di suya, il barbecue nigeriano, servito con yaji, una miscela di spezie del popolo Hausa.

Tra gli ingredienti più comuni della cucina africana occidentale ci sono gamberi secchi, prekese, granchi, gombo, scotch bonnet, platani, manioca, kulikuki, fagioli dall'occhio nero, baobab, grani del paradiso, foglie di banano, pepe selin, semi di njangsa, yaji, egusi e gari. Dagli Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Dubai arriva questa nuova stagione della cucina africana, che sta conquistando il mondo della ristorazione raffinata. Un tempo considerata solo come cucina casalinga o di comunità, oggi trova spazio nei ristoranti più esclusivi, grazie alla sua ricchezza di sapori, alla sostenibilità e all'autenticità delle sue preparazioni. Piatti esotici e spesso a base vegetale si affermano come nuove proposte del fine dining, in linea con le tendenze contemporanee che privilegiano alimenti sani, ecologici e innovativi. Nei menu del fine dining entrano tradizioni africane antiche combinate con tecniche moderne. Alcuni esempi sono il teff (un cereale etiope usato per il pane), il fonio (un cereale dell'Africa occidentale), il berberè (una miscela di spezie etiope) e il mafé (stufato di arachidi senegalese). Nel fine dining, la cucina africana non è solo cibo, ma anche racconto: ogni piatto è una storia, un viaggio, un rituale culturale. Così l’esperienza gastronomica diventa un momento immersivo, come oggi si richiede a ristoranti, musei e mostre d'arte.

Categoria: Fine Dining
Titolo: L’Africa nel fine dining
Autore: Camilla Baresani Varini