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Cannes 2025, il mondo (del cinema) secondo Frémaux

Una selezione superba e politica: il Festival torna a dettare l’agenda culturale globale. 

Thierry Frémaux deve essere uno di quegli uomini che ogni mattina si alzano con una domanda, sempre la stessa, in testa: come faccio a conquistare il mondo? Il titolo professionale di Frémaux è delegato generale del Festival di Cannes e il direttore dell'Istituto Lumière di Lione, per comodità e brevità lo si può definire anche l’uomo che ha (ri)messo il Festival di Cannes al centro del villaggio del cinema. Il 2024 è stato probabilmente il suo capolavoro, l’anno in cui è riuscito a far passare dalla Croisette il film che avrebbe vinto tutto (Anora di Sean Baker), quello di cui avrebbero parlato tutti (The Substance di Coralie Fargeat) e anche quello che avrebbero odiato tutti (Emilia Perez di Jacques Audiard). Un trionfo, per un uomo al quale fino a poco tempo fa tutti dicevano che il futuro sarebbe stato nero, nerissimo: l’agenda del cinema ormai si faceva a Venezia e a Toronto, gli dicevano; le piattaforme streaming avrebbero privato il circuito dei festival anche dell’ultimo rimasuglio di rilevanza, gli dicevano. Ma Frémaux non ha mai smesso di alzarsi ogni mattina con quella domanda, sempre la stessa, nella testa. E, a giudicare dalla Selezione ufficiale del Festival di Cannes 2025, non solo è riuscito a darsi una risposta ma è stato pure capace di trasformarla in una formula da usare quando gli pare e piace, tutte le volte che gli pare e piace. Tutto questo per dire che, anche quest’anno, il discorso sul cinema, l’agenda della Settima arte, si fa a Cannes.

Ci sono diciannove film in competizione quest’anno. L’annuncio è stato fatto giovedì 10 aprile con la tradizionale conferenza stampa, Frémaux seduto al tavolo bianco, alle spalle la grafica rosa confetto e giallo oro del Festival 2025. Tra i critici cinematografici, uno degli aggettivi più spesi per commentare la Selezione Ufficiale è stato «superba». È facile farsi impressionare da certi titoli e certi registi selezionati, appunto, per impressionare pubblico e critica. Niente dimostra la rilevanza di un festival come il fatto che Wes Anderson (The Phoenician Scheme), Ari Aster (Eddington), Richard Linklater (Nouvelle Vague) vogliono venire qui a presentare i loro nuovi film. E poi, questi titoli e questi registi assicurano un red carpet che riempirà le prime pagine dei giornali e i feed social, con tutti gli attori e le attrici A list che si portano dietro. Ma il mestiere di direttore di un festival cinematografico sta nelle scelte attorno a queste. Per esempio, sta nella decisione di selezionare The Mastermind di Kelly Reichardt, che per il cinema indie americano vale quanto Sean Baker. D’altronde, se sei il direttore di un festival cinematografico, nessuno ti farà mai i complimenti per aver avuto l’idea di selezionare il nuovo film di Wes Anderson, di Ari Aster o di Richard Linklater: bella forza, ci sarebbe arrivato chiunque. Per dominare il mondo del cinema bisogna avere l’intuito – sarebbe giusto dire il gusto, anche – necessari a capire il prossimo vibe shift che la cultura attraverserà. Di cosa avranno voglia, le persone? Cosa vorranno vedere, su cosa vorranno litigare? Queste sono le domande che portano a scelte come Romeria di Carla Simon, Sentimental Value di Joachim Trier, per esempio. Non è questo il posto per fare la sinossi di ogni film selezionato al Festival di Cannes, ma anche senza scendere nei dettagli biografici di ogni opera si vede chiaramente il colore del filo che tiene tutto assieme: è il rosso dell’età adulta e dell’epoca conflittuale che il mondo sta attraversando, il rosso che contraddistingue «le storie per adulti» di cui Sean Baker aveva parlato proprio a Cannes un anno fa, quando per la prima volta mostrava al mondo il film (Anora) che lo avrebbe reso il regista più premiato nella storia degli Oscar.

C’entra la politica, con il cinema? Certo che c’entra, il cinema (come tutto) è politica. A Cannes si è sempre fatta politica, Cannes è stato uno dei luoghi in cui il Maggio francese si manifestò con tutta la sua sconvolgente, stravolgente, rivoluzionaria sbruffonaggine. Da quella leggendaria edizione del 1968 la politica è sempre stata parte del Festival, nei modi e nelle forme che l’attualità richiedeva. Quest’anno il Festival politico è Jafar Panahi, ormai grande vecchio del cinema iraniano, che sulla Croisette porta un film (A Simple Accident) che le teocrazia dell’ayatollah lo ha costretto a girare in segreto, temendo – di nuovo, perché Panahi in carcere per la sua arte c’è già stato – per l’incolumità sua e delle persone che hanno. Ma la politica a Cannes è anche Once Upon A Time In Gaza di Tarzan Nasser and Arab Nasser, selezionato nella sezione Un Certain Regard, a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, che in Medio Oriente si sta decidendo il futuro del mondo, le sorti dell’umanità.

Ovviamente, se dovessimo riassumere il Festival di Cannes in un triangolo, un vertice sarebbe quello delle novità, uno quello dell’attualità/politica, e l’altro sarebbe quello della tradizione. Tra le tradizioni di Cannes ci sono autori come i fratelli Dardenne, in concorso con La maison maternelle; c’è Kirill Serebennikov, scelto nella sezione Premiere con il suo The Disappearance of Josef Mengele. Un richiamo alla tradizione, e a una specifica tradizione cinematografica, Frémaux lo ha fatto durante la conferenza stampa di presentazione del Festival: parlando dei due film italiani scelti per la sezione Un Certain Regard (Testa o croce? di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi e La città di pianura di Francesco Sossai), il direttore ha ricordato che, pur pieno di difetti e problemi, il cinema italiano esiste e resiste. Questi tre autori, ha detto Frémaux, e la generazione della quale sono i rappresentanti, possono essere considerati (speriamo, aggiungiamo noi) «gli eredi di Scola, Antonioni o Visconti». Ma anche di Mario Martone, unico italiano in concorso con il suo Fuori, biopic, come si dice oggi, della scrittrice goliarda sapienza. Una curiosità per gli appassionati di cinema: assieme a Matilda De Angelis e a Elodie, la protagonista del film è Valeria Golino, regista pluricandidata ai David di Donatello 2025 con la miniserie L’arte della gioia, adattamento del romanzo omonimo di Goliarda Sapienza.

Proprio perché in questo momento è così difficile ricordarsene, Cannes quest’anno manda anche il messaggio che un’altra America esiste ancora. Esiste ancora l’America del blockbuster, dei film-evento Mission: Impossible – The Final Reckoning, diretto da Christopher McQuarrie ma soprattutto interpretato, per l’ultima volta, da Tom Cruise. Esiste ancora l’America del cinema d’autore, ed è per questo che il Festival ha inserito Highest 2 Lowest di Spike Lee nella sezione Fuori concorso (c’è stato anche un momento piuttosto imbarazzante, a proposito di Lee e del suo film: Frémaux si era dimenticato di annunciarlo durante la conferenza stampa e Lee lo ha corretto con un post sui suoi profili social in cui sostanzialmente diceva al mondo “Ci sono anche io!”). Esiste ancora l’America di Robert De Niro, che verrà premiato con la Palma d’oro alla carriera. In attesa del suo discorso d’accettazione – De Niro non delude mai, nemmeno da questo punto di vista – le parole con le quali ha commentato la notizia della sua prossima premiazione sono le migliori per descrivere il Festival di Cannes, tutti i festival cinematografici del mondo, il cinema: «Soprattutto ora che ci sono così tante cose nel mondo che ci allontanano gli uni dagli altri, Cannes ci unisce».

Categoria: Cinema
Titolo: Cannes 2025, il mondo (del cinema) secondo Frémaux
Autore: Francesco Gerardi