La World’s 50 Best Restaurants
Nata nel 2002 in opposizione alla Michelin Guide, la World’s 50 Best Restaurants è diventata nel tempo la classifica di riferimento per il fine dining.
Gli online dei giornali pubblicano a getto continuo classifiche. I dieci polli arrosto migliori di Berlino, le 15 scogliere più terrorizzanti, le dieci sneakers più trendy, i dieci illusionisti più famosi di tutti i tempi, e poi via, razze di cani, borghi sperduti, friggitrici ad aria… Tutto è classificabile e, per i lettori, l’idea che la complessità del mondo possa essere ordinata in un breve elenco è sfiziosa e rassicurante. Al contempo, per gli editori, le classifiche producono click che attirano investimenti pubblicitari.
Quando poi si tratta di ristoranti, tra le infinite classifiche che li mettono in fila, la più fortunata, nel senso di seguito e autorevolezza, è da tempo la World’s 50 Best Restaurants. Mentre la storica Guide Michelin mappa i singoli paesi e cerca di mettere ordine con l’assegnazione di stelle e sottostelle, la 50 Best è assertiva, sbrigativa e world wide. I cinquanta migliori ristoranti del mondo. Di tutto il mondo. Boom! Ma come diavolo li valutano? Quanti ispettori ci vogliono per esaminare 6 continenti (escludendo, per ora, il settimo, l’Antartide)? Ufficialmente i votanti sono 1080, definiti “esperti indipendenti”. Con quale criterio questi scaltri gourmet che si suppone siano perlopiù occidentali valutano le cucine di luoghi così distanti dalla nostra cultura gastronomica? Che ne sanno della cucina della Papuasia, dello sterminato Oriente, dell’Africa profonda? È evidente l’inattendibilità, quasi provocatoria, che però piace moltissimo. Laddove la Michelin sembra ormai imbolsita, un po’ “da vecchi”, come arredarsi la casa con una ribalta intarsiata in stile Maggiolini anziché con un mobile di design, 50 Best è frizzante, crea star, fa show e non appena un ristorante appare in classifica fioccano migliaia di prenotazioni dai turbofan della lista. Un articolo di Bloomberg del 2010 affermava che, il giorno seguente la proclamazione del primo posto al Noma di Copenaghen, centomila aspiranti clienti provarono a prenotare un tavolo. Tre anni dopo, quando il primo posto toccò a El Celler de Can Roca di Girona, il sito del ristorante ricevette due milioni e mezzo di visite in 24 ore, facendo decollare la lista d’attesa a oltre un anno.
Del resto, la classifica era stata creata nel 2002 da un gruppo di redattori del magazine britannico Restaurants, proprio in funzione anti-Michelin. L’obiettivo era quello di premiare quel genere di ristoranti che non sarebbe mai entrato nella vecchia guida ampollosa. Intervistato nel 2015 dal New Yorker, uno dei fondatori, Chris Maillard, aveva dichiarato: «Eravamo un gruppo di giovani amanti del cibo un po’ scontrosi, ascoltavamo terribile musica indie a tutto volume in ufficio, che era in Carnaby Street, pranzavamo ovunque, dal pub locale all’occasionale ristorante più raffinato che ci offriva a malincuore un pasto gratuito, e non eravamo affatto membri dell’establishment culinario tradizionale». Ora lo sono.
Erano i primi anni dei voli low cost e a quel punto volare in Portogallo costava quanto andare a Liverpool in treno. I colleghi di Maillard pensarono che fosse anacronistico limitare la classifica a un singolo paese (come fa la Michelin). «Dove vorresti andare se non fossi francese, ricco o vecchio? Abbiamo messo insieme la lista chiamando contatti e amici in tutto il mondo». Dallo spontaneismo del primo anno, in cui il vincitore è stato il celeberrimo (ormai chiuso) El Bulli di Ferran Adrià, l’evoluzione è stata rapidissima. Il secondo anno, il 2003, era comparso sul fondo della classifica un buffet di carne arrosto all’aperto, a Nairobi. Definendo l’archetipo dei locali entrati in classifica in quei primi anni, David Chang, famoso imprenditore della ristorazione, disse: «Sta aprendo a Pechino, è un ristorante cinese di un tizio che ha lavorato per Adrià, Redzepi e Keller. Cucina sul fuoco. Tutto è una storia del suo terroir. Ha la sua fattoria e si tuffa per cogliere i ricci di mare a mani nude». Oggi il buffet di Nairobi e il cuoco con la mistica dei ricci non esistono più. La 50 Best include solo ristoranti molto costosi, dove prenotare non è facile, e i menù propongono cibi altamente manipolati offerti in estenuanti maratone degustative, in cui si viene assaltati da un continuo fluire di portate: 15, 20, 30 “esperienze”, dato che il genio degli chef è incontenibile. Immaginatevi seduti per ore e ore al Gaggan di Bangkok o all’Alchemist di Copenaghen, in ristoranti/teatro dove il cibo è confezionato in modo che sembri qualcos’altro, dal bulbo oculare al menhir del neolitico. Quest’anno, ad ogni modo, il vincitore è stato il Disfrutar di Barcellona, annunciato in una fastosa cerimonia al Wynn di Las Vegas, tra coreografie, balli, e istruzioni sugli hashtag da usare per i social. A un certo punto era nato anche un movimento dissidente fondato da tre francesi, Occupy 50 Best, sostenuto da un consistente numero di chef famosissimi (tra cui Joël Robuchon). Ma dopo due settimane i protestatari avevano ricevuto l’intimazione di uno studio legale inglese che prometteva cause milionarie se avessero continuato a usare il logo 50 Best, e il movimento si è immediatamente dissolto.
Scrive il New York Times: «Il sito web della lista è un modello che dovrebbe essere studiato da chiunque voglia organizzare parole che suonano importanti e non significano nulla». Conosciamo il genere. Anche qui da noi il lessico fumoso ed effettistico ha sempre destato meraviglie e consensi. Abbiamo osservato il successo di decine di personaggi contesi nei talk televisivi, analizzando le cui frasi si faticava a trovare un senso. Ma torniamo alla storia del 50 Best. Nel corso degli anni questa classifica è diventata l'arbitro più potente dell'industria alimentare, anche grazie alla forza promozionale degli sponsor principali, San Pellegrino e Acqua Panna. Va aggiunto che, a differenza della Michelin, l'organizzazione non rimborsa né pasti né viaggi dei giurati: se ne deduce che perlopiù sono graditi ospiti degli chef. È un modello di business geniale. Proprio come gli aggregatori di notizie che guadagnano su qualcosa di cui qualcun altro ha sostenuto il costo.
Una regola degli ultimi anni: dato che si era creato un loop al primo posto per cui si alternavano sempre gli stessi – tra cui La Francescana di Massimo Bottura – chi l’ha già ottenuto non viene incluso nella votazione annuale.
Tra i rimproveri che si muovono alla 50 Best – oltre al bias geografico (per esempio, trascurare il continente africano la cui cucina è oggi sotto i riflettori delle nuove mode) e oltre all’averla buttata sulla ristorazione di lusso (tagliando fuori locali più veraci) – uno è quello di essere profondamente influenzata dal marketing e dalle lobby. Tutta una questione di relazioni, di sponsor, di furbizie strategiche. Per esempio, si dice che per entrare nella lista, dopo essersi pervicacemente applicati al sensazionalismo del “fare ristorazione in maniera strana”, sia fondamentale far parte del giro degli sponsor e soprattutto affidarsi a specifici pr. In Italia, i nomi cui affidarsi sarebbero quelli della langarola Manuela Fissore e di suo marito, il neozelandese Thomas Barker.
Categoria: Fine dining
Titolo: La World’s 50 Best Restaurants
Autore: Camilla Baresani